Per intendere la vicenda artistica di Licio Passon non si può prescindere dalla sua appartenenza alla Patria del Friuli ed ai valori più veri e profondi di una civiltà contadina intimamente fatta propria, non già rivissuta come ricordo sbiadito.
A forgiarlo è stato lo splendido esempio dei suoi genitori che ben conoscevano la vita dura dei campi, quei campi che, agli occhi di un bambino, nato a metà degli anni ’60, apparivano uno scrigno prezioso in cui si celavano frutti, bacche, erbe, fiori e piccoli animali, un mondo da scoprire e conoscere nel minimo dettaglio, ma anche da fissare su un foglio da disegno per limitarne la caducità.
E’ da allora che Passon non ha più lasciato pennelli e colori per seguire la sua vocazione artistica pur non trascurando gli studi tecnici ed una parentesi professionale che, negli anni della formazione, ha contribuito a sviluppare la sua capacità di osservazione ed una straordinaria meticolosità esecutiva, destinata grazie alla progressiva acquisizione dei mezzi espressivi a far emergere il talento ed a confermare il valore di Passon artista, riconosciuto anche Oltreoceano come “pictor optimus” per la competenza che richiede il suo modo di operare, in adesione alla realtà, che per essere rappresentata richiede l’esercizio di alcune doti indispensabili quali la tenacia, la volontà di apprendimento, l’amore per l’applicazione e lo studio, la dedizione assoluta.
La conoscenza dei grandi maestri del passato, l’aspirazione a mettersi in gioco per emularne gli esiti, la partecipazione a grandi eventi internazionali legati all’Arte, il consenso crescente, anche all’estero, da parte di collezionisti e gallerie hanno spinto, in questi ultimi anni, Licio Passon a dedicarsi esclusivamente alla pittura nel suo atèlier, dove è nata una copiosa produzione di opere la cui elaborazione richiede amorevole cura, padronanza esecutiva e gusto del colore.
La predilezione dell’Artista per tutto ciò che rimanda alla quiete, all’armonia, al Bello risulta una scelta davvero in controtendenza, fino alla provocazione, per quel voler realizzare ciò che per molti è impensabile: ritrarre una realtà più convincente di quella vera e non meno avvincente dell’originaria.
Giovanna Calvo Di Ronco
Lo scandalo della bellezza
Non voglio convincermi che l’oscurità sia stata in qualche momento il fine dell’arte. Non è credibile che intere generazioni si siano affannate solo a creare enigmi.
Jorge Luis Borges
«Cosa vuol dire essere classici? Vuol dire essere bravi per l’eternità.»
così Giorgio Soavi qualche tempo fa parlando dell’indimenticabile Gianfranco Ferroni.
Un itinerario di successo, anche se non ancora agguantato per l’eternità, lo ha percorso anche Licio Passon giovane pittore autodidatta. Anch’egli di impostazione classica, che non significa adagiarsi sul passato ma trarne linfa e incitamento, si esprime con un brillante ed estroverso linguaggio figurativo che trasmette universalità alle sue lucide emozioni.
Libero, per inconscia fortuna, dai condizionamenti delle Accademie che troppo spesso invece di immergere i potenziali artisti nella grandiosa storia dell’arte – storia stessa dell’uomo – arricchendoli di conoscenze, non solo vengono meno al loro compito ma pretendono di dirigerli su frusti modelli di contemporaneità come unico modo di intendere l’arte oggi. Il politically correct applicato all’arte! Passon, che proviene da un’austera famiglia friulana, si è dapprima costretto a studi ed impegni tecnici e solo in seguito il suo impulso alla creatività ha liberato l’ardimentoso sogno del dipingere.
Il suo studio insolitamente lindo, di metodicità asburgica, accoglie con una sensazione di benessere: i quadri si offrono intorno e il visitatore viene avvolto da un piacere che da appagamento di sensi diventa gioia dell’anima. Un’opera precoce e di inconsueto equilibrio “Il tè delle cinque”, quadro corale e complesso che occupa un’intera parete (cm. 180 x 230), è il suo benvenuto: la cordiale atmosfera di una sontuosa sala da tè affollata di personaggi eleganti tra porcellane e teiere d’argento, riunisce in una specie di emblematico capodopera vari e riusciti generi: squisiti ritratti, esplosivi mazzi di fiori, nature morte di ineludibile seduzione, e dal fondo una luce nordica a filtrare da una grande vetrata oltre la quale si delinea un giardino fiabesco: ennesimo concluso quadro nel quadro.
Dai suoi pazienti, pensosi pennelli nascono le solitarie Stilleben già molto apprezzate e presenti in Gallerie di prestigio. Composizioni mature in cui il tempo si ferma in uno spiovere laterale di luce, liberando in spudorato risalto visceri umidicci di zucche sventrate, anacronismi di polvere su vecchie impagliature sfasciate, scheggiature ripetute sullo stesso angolo di un ricorrente cassetto, succose profferte di limoni tagliati, sbrecciature di brocche inesauste, laboriosi inenarrabili intrecci di jute in cui è conficcato il mistero di un assente arnese ferrigno, reticoli fini di foglie in controluce a dissipare evanescenze grigie su orizzonti di silenzio.I ritratti femminili lasciano trasparire tracce di intimità pensierose su sfondi di sorprendente complementare ricchezza, stemperati a volte in sommesse vibrazioni di colore che ne accrescono l’atmosfera di composta bellezza.
Ma sono le sue Venezie a suscitare un viluppo di strabilianti passioni. Di puntiglioso verismo nella descrizione delle fuggenti prospettive delle facciate, serrate un po’ oblique a sorreggersi a mo’ di annose carampane, Passon ci racconta la sorpresa di casuali prodigi: intonaci sfatti, arabeschi barbagli multicolori, disordine penzolante di fili, antenne sghembe, indumenti a spaventapasseri nel vento, macrocefali comignoli vacillanti, pietre corrotte, fondamenta ammantate di alghe simili a fitti velli bagnati di ansimanti belve marine: già bastevoli rappresentazioni, volendo, di compiuto valore. Sono invece i portentosi riflessi dei palazzi catturati a liquefarsi nei canali, allungati in un ininterrotto lamento di architetture sfinite, che ci trascinano in un ulteriore travolgente racconto.
Splendidi attimi rubati con la percezione della miracolosa provvisorietà della luce, che pure si nutre qui di un perverso fascino di decadenza, in cui il sole gioca con impudenza di bagliori e di ombre nell’impercettibile vacillamento dell’acqua, quasi illudendoci che le offese del tempo possano per strane alchimie guarire in un capovolto sogno di magici specchi. Dipinti che squarciano la parete, aprendo varchi sui rii veneziani, la massa d’acqua verdastra che irrompe, barbe di alghe a lambire i muri, rosati splendori di marmi a merletto, mosaici d’oro, candidi profili di pietre istriane in un movimentato sfavillio d’instancabile frenesia cromatica.
Alla mente arriva netto improvviso l’afrore dei canali che si mescola all’afrodisiaco aleggiare dei solventi e delle vernici del pittore. Su un sandalo nero attraccato a due paline malferme nella penombra di un canale zeppo di disciolte facciate è stato abbandonato un drappo a fasce rosse e bianche. Un rettangolo di cielo precipita dai tetti e si stende sul velluto d’acqua. L’arco chiaro di un ponte si conclude nel suo tetro ovale di ombra. Il fluido incantesimo ci colma. E un canto malinconico di sopiti rimpianti si risveglia in questa Venezia di rapinate bellezze, splendida metafora della vita che pigramente ci uccide.
Giovanni Serafini